Creative Commons: l’evoluzione dei diritti d’autore

Luca Paolucci
  • Laurea in Economia e Management
  • Laureato in Management Internazionale

Il mercato dei diritti d’autore sta cambiando e non solo più su Internet. In un contesto dove non valgono più le vecchie regole e dove non si guadagna più sull’opera materiale, si stanno sviluppano nuove forme contrattuali: nascono le licenze Creative Commons.

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Oggi come non mai, soprattutto con l’avvento di Internet, si rende necessario combattere a muso duro la pirateria e la contraffazione. E, in quest’ottica, il mercato dei diritti d’autore sta cambiando.
Tuttavia, ciò che negli ultimi anni è cambiato non è tanto il diritto d’autore in sé, ma le relazioni su cui esso si affaccia, e quindi l’approccio che si ha quando si parla di diritto d’autore.
Ed è in questo vasto calderone che sono nate le cosiddette licenze Creative Commons, un’alternativa importante ai classici diritti d’autore “All right reserved”.

Diritto d’autore: il quadro giuridico attuale

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Secondo l’art. 2575 del Codice Civile:
“Formano oggetto del diritto di autore le opere dell’ingegno di carattere creativo che appartengono alle scienze, alla letteratura, alla musica, alle arti figurative, all’architettura, al teatro e alla cinematografia, qualunque ne sia il modo o la forma di espressione.”
L’articolo a seguire (art. 2576) afferma inoltre che:
“Il titolo originario dell’acquisto del diritto di autore è costituito dalla creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale.”
Ne consegue che l’opera appartiene, come primo titolare, a chi ne è l’autore, ed egli ha il diritto di disporne per ciò che attiene l’utilizzazione economica.
Tuttavia, ciò che negli ultimi anni è cambiato non è tanto il diritto d’autore in sé, ma le relazioni su cui si affaccia il diritto d’autore e, quindi, è anche cambiato l’approccio che si ha quando si parla di diritto d’autore.

Diritto d’autore: la sua evoluzione

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Un tempo, non più di venti anni fa, quando si parlava di diritto d’autore si pensava a un ramo del diritto settorializzato, rivolto solo ad artisti e autori. Nessuno immaginava che, di lì a breve, coi bassi costi che offre la tecnologia, tutti saremmo diventati autori, editori e produttori di noi stessi.
Le nuove tecnologie ci hanno consentito di diventare fotografi e scrittori, quindi, ci hanno messo davanti all’esigenza di dover proteggere le nostre opere. Siamo diventati tutti editori di un piccolo blog e quindi abbiamo maturato la necessità di tutelare i nostri testi. Siamo diventati autori di musica o di videoclip, anch’essi da proteggere. Insomma, oggi più che mai abbiamo bisogno – in veste di soggetti passivi – del diritto d’autore.
Ma entriamo in contatto col diritto d’autore anche in veste di soggetti attivi, come trasgressori. Siamo infatti diventati anche “condivisori”: come dire che siamo vittime e carnefici.
A fronte di questo cambiamento, per così dire tecnologico, non si è avuta però la stessa evoluzione nel campo della legge. Il sistema giuridico che regola la circolazione dei beni è rimasto improntato al concetto di scarsità. Le norme, infatti, sono state scritte in un periodo in cui i supporti erano solo fisici, in un’epoca in cui se prestavo un CD non potevo più utilizzarlo.
Alla fine, l’acquirente teneva gelosamente per sé il prodotto acquistato e gli altri, se lo volevano, dovevano acquistarlo. In pratica, l’acquirente, nel tutelare la sua proprietà, faceva anche gli interessi del titolare dei diritti d’autore, il quale si avvantaggiava dal fatto che anche altre persone erano costrette a comprare il CD se volevano ascoltarlo.
Oggi non è più così. Anzi, per l’acquirente il mettere in condivisione i propri beni è condizione per accedere a quelli degli altri e arricchire il proprio archivio.

La differenza la fanno gli interessi

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C’è una scissione di interessi: quelli del popolo non sono più quelli dei titolari dei diritti d’autore. In più, c’è un altro aspetto che contribuisce ad acuire la crisi del momento. Gli interessi del popolo sono per così dire “sponsorizzati” da nuovi poteri economici che si stanno affacciando sulla scena mondiale.
Le compagnie telefoniche, per esempio, che non avrebbero ragione di vendere connessioni superveloci se alla gente non servissero per scaricare i film da Internet. O, ancora, i produttori di hard disk esterni supercapienti (che ragione avrei di acquistare un HD da 2 terabites se dovesse contenere solo i files word dei miei articoli? È naturale che là dentro ho bisogno di metterci anche film, cd e quant’altro ho razziato dalla Rete).
Non solo. C’è anche la posizione della SIAE che riceve lauti guadagni dall’equo compenso: una addizionale applicata sulla vendita di ogni memoria esterna vuota (sim di macchine fotografiche o di cellulari, CD e DVD vergini, HD esterni, ecc.) e incassata perché la legge presume che quelle memorie verranno utilizzate per copiare files protetti dal diritto d’autore.
E poi, dulcis in fundo, abbiamo gli interessi della cosiddetta New Economy, i grandi gestori di portali e motori di ricerca come Google, Yahoo!, Facebook e YouTube, che vivono di pubblicità e quindi di traffico su Internet. E il traffico è generato prevalentemente dalla pirateria. La libera circolazione di tali files rende ricchi tali nuovi soggetti.
Alla fine, il discorso morale sulla pirateria – se giusta o sbagliata – è solo un discorso di opportunità, ma dietro si nasconde una nuova rivoluzione industriale ed economica che vede trasformarsi la nostra epoca da “materiale” ad “immateriale”.
Alla luce di ciò, i due schieramenti vedono da un lato tutti coloro che hanno in passato guadagnato dal sistema per così dire tradizionale: quindi major, artisti più affermati, case editrici e anche la SIAE, in quanto rappresentante degli autori ed editori. Dall’altro lato la New Economy.

Come si dovrebbe porre la legge a riguardo?

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La legge, che dovrebbe essere terzo spettatore, ha invece deciso da che parte stare e invece di pensare di riformare la materia, per non dover considerare chiunque si colleghi alla Rete come un criminale, un pirata o un trasgressore della legge, ha negli ultimi anni adottato una politica di enforcement, ossia ha inasprito le pene previste nel caso della condivisione dei contenuti.
Indubbiamente qualcosa deve cambiare: sarebbe bene che il diritto non si arroccasse su posizioni ataviche. Perché, così facendo, si finisce per considerare a priori chiunque utilizzi una connessione ADSL come un pirata digitale.
Questa dialettica sta innervosendo anche gli autori, che prima si sentivano più tutelati dalle società di intermediazione dei diritti e che ora invece lo sono di meno, non fosse altro per i problemi relativi alle fette da dividere sui guadagni.
A farne le spese, per un complicato meccanismo che non stiamo qui a raccontare, sono sempre i piccoli autori. Così, questi hanno iniziato ad autoprodursi e ad autodistribuirsi. Del resto – cosa che non tutti sapevano una volta – non è necessario iscriversi alla SIAE per vedere tutelati i propri diritti d’autore.
Sono così nati dei veri e propri store di musica, come Jamendo, ove gli autori si iscrivono e consentono di utilizzare tale musica agli utenti dietro pagamento di royaltee meno onerose di quelle che si dovrebbero pagare alla SIAE. Gli autori, insomma, stanno iniziando a comprendere che si può vivere anche senza la SIAE, che però resta al momento l’unico soggetto che può intermediare nella raccolta dei diritti d’autore. È forse uno degli ultimi monopoli rimasti nel nostro Stato.

L’alternativa: le licenze Creative Commons

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In un mercato dove non valgono più le vecchie regole e dove non si guadagna più sull’opera materiale, non ha più senso neanche conservare delle prerogative su un bene che non si vende. Si finirebbe, altrimenti, per fare la fine dell’ultimo imperatore cinese, chiuso nella propria fortezza, a governare solo il suo piccolo palazzo, mentre fuori c’è già la rivoluzione comunista.
Gli autori hanno compreso che, in questa nuova epoca della comunicazione, la vera forza dell’artista non sta nel vendere un prodotto in più, ma nel farsi conoscere, nel condividerlo egli stesso, senza dover aspettare che siano gli altri a farlo di nascosto (tanto, prima o poi, lo faranno lo stesso).
Sta quindi succedendo che si sviluppano nuove forme contrattuali con cui gli autori mettono a disposizione del mercato le proprie opere. Sono nate le licenze Creative Commons che, in contrapposizione ai classici diritti d’autore (“All right reserved”), permettono al creatore di contenuti di conservare non la piena proprietà intellettuale, ma solo alcune specifiche prerogative (“Some right reserved”).

Licenze Creative Commons: come funzionano

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Le licenze Creative Commons consentono quindi la diffusione e la condivisione delle opere, senza violazioni della normativa sul diritto d’autore. Si cerca così di rendere il diritto di accesso alla conoscenza collettiva un nuovo diritto universale, da porre a base di un modello di sviluppo, nel quale vengano sapientemente bilanciati da un lato gli interessi economici dei creatori e dei distributori di opere intellettuali, dall’altro l’interesse collettivo all’accesso ai nuovi beni digitali.

Nella pratica, le licenze Creative Commons offrono l’utilizzo dell’opera a patto che vengano rispettate alcune condizioni, come per esempio:
  1. l’utente può utilizzare ampiamente l’opera altrui, può copiarla, distribuirla o semplicemente mostrarla, a condizione che menzioni sempre l’autore dell’opera, in modo chiaro e non equivoco;
  2. l’autore può permettere agli utenti di servirsi della sua opera purché non venga usata con fini di lucro;
  3. l’autore potrebbe vietare soltanto che la propria opera venga modificata o alterata.
Del resto, la nuova cultura del “remix” ha compreso che nessuna arte nasce autonomamente, ma raccoglie sempre il testimone di altre opere e da esse parte. Per cui gli artisti, condividendo tra loro le opere, hanno anche più possibilità di raccogliere ispirazioni.