Filtro in appello: cos’è e come funziona
La possibilità di appellare le sentenze di primo grado ha da poco subìto una falcidia per via dell’entrata in vigore del nuovo “filtro in appello”. Vediamo insieme i casi in cui il giudice può attivarlo e la spiegazione giuridica dietro alla nascita dello strumento.
È tempo di spending review anche per la giustizia e per le aule dei tribunali, spesso impegnate in contenzioni pretestuosi e dilatori. Tuttavia, dell’abuso di un diritto operato da parte di pochi ne fanno sempre le spese gli altri consociati. E così, anche il principio cardine del nostro processo, quello del doppio grado di giudizio, sembra ormai compromesso con l’entrata in vigore del nuovo “filtro in appello“.
Gli avvocati non amano le riforme, questo si sa, specie quelle che riducono il loro lavoro. Tuttavia, la novella rischia di creare un gap all’interno del nostro sistema costituzionale.
È davvero giusto comprimere il diritto costituzionale alla difesa per guadagnare un punto percentuale di Pil?
Nasce il “filtro in appello”
Nato con l’intento di disincentivare l’indiscriminato utilizzo dell’appello – che inutilmente era stato riformato nel 1990 (con la L. 353/90), rendendosi provvisoriamente esecutiva la sentenza di prime cure – e per decongestionare le aule giudiziarie, il nuovo strumento è stato criticato anche per l’eccessiva discrezionalità assegnata alle Corti di Appello.
In verità, gli appelli con esito fruttuoso sono, nel nostro Paese, un numero relativamente risicato: solo il 32%, secondo le stime offerte da Italia Oggi. Il residuo 68% – costruzioni di carte e apparati burocratici – viene pagato dai cittadini italiani, peraltro non solo in termini economici, ma anche in termini di ritardi sui tempi di emanazione delle altre sentenze.
La nuova legge – che si applica alle sentenze pubblicate dopo il trentesimo giorno dall’entrata in vigore della L.134/2012 (che ha convertito il D.l. 83/2012) – ha introdotto, all’interno del Codice di Procedura Civile, l’articolo 348-bis, che attribuisce al giudice d’appello la facoltà di dichiarare inammissibile l’impugnazione qualora non abbia una ragionevole possibilità di essere accolta. In altre parole, l’ammissibilità dell’appello è incentrata sulla valutazione di possibilità di successo dello stesso.
Il filtro non si applica nel caso in cui sia obbligatorio l’intervento del P.M. (art. 70, comma 1 c.p.c.) per via della connotazione pubblicistica di tali giudizi, e nel caso dell’ordinanza pronunziata all’esito del giudizio a cognizione sommaria (art. 702-quater c.p.c.), nonché nel caso di giudizi tributari.
“Filtro in appello”: come funziona
Alla prima udienza di trattazione, il giudice valuta innanzitutto la fondatezza dell’impugnazione. Lo fa dando luogo a una discussione tra le parti, che possono dire la loro, in ossequio al principio del contraddittorio. In caso di valutazione negativa, il giudice dichiara l’inammissibilità con ordinanza succintamente motivata, chiudendo il procedimento. Diversamente, il magistrato procede alla trattazione, senza adottare alcun provvedimento e procedendo secondo le regole ordinarie.
L’ordinanza di inammissibilità è pronunciata solo quando sia per l’impugnazione principale che per quelle incidentali (non tardive) non ricorrano i presupposti di ragionevole infondatezza. Con essa, la Corte decide anche sulle spese, di norma condannando la parte appellante, autrice dell’appello inammissibile.
L’ordinanza di inammissibilità può essere impugnata per Cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello. Si tratta di un rimedio, tuttavia, di efficacia limitata, atteso che la Suprema Corte giudica solo sulla esatta interpretazione delle leggi e (quasi) mai sul fatto.
Difatti, quando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per Cassazione è limitato a motivi di diritto.
Resta impregiudicato il potere della Cassazione di rilevare nullità inerenti al procedimento di appello.
Cosa deve fare l’avvocato?
La conseguenza di tutto ciò si ripercuote inevitabilmente anche sull’atto di appello stesso che l’avvocato dovrà redigere. Volendo improntare un modello di impugnazione da redigere secondo la riforma, sarà bene tenere a mente i seguenti punti.
Innanzitutto, il legale dovrà riportare, nell’atto di appello, la ricostruzione del fatto per come operata nella sentenza di primo grado, specificando quali siano le parti da ritenersi erronee. Non basta però “criticare”: bisogna anche indicare le modifiche che devono essere apportate alle parti censurate. A tal fine sarà utile richiamare le prove capaci di smentire la ricostruzione operata dalla sentenza.
La stessa operazione va fatta in merito ai motivi in diritto: è necessario, cioè, indicare le circostanze da cui deriva la violazione della legge, sottolineando la rilevanza che esse hanno ai fini della decisione finale. In sostanza, bisogna riportare l’interpretazione della legge data dal giudice di primo grado, specificare perché non può considerarsi corretta e chiarire, in ultimo, quale diversa interpretazione debba invece considerarsi giusta.
Per come è ovvio, la censura deve riguardare motivazioni che hanno avuto un’influenza determinante ai fini del decidere, senza cioè le quali il risultato della pronuncia sarebbe stato diverso.