Generazione di precari: quali opportunità?

Luca Paolucci
  • Laurea in Economia e Management
  • Laureato in Management Internazionale

Il tasso di disoccupazione in Italia è in continua ascesa ma la lista dei mestieri che i giovani non vogliono fare è sempre più lunga. La recente riforma del lavoro non convince e rischia di allargare l’esercito dei disoccupati.

male-3532483_1920

L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro? È triste doverlo ammettere ma oggi non sembrerebbe così.

I dati pubblicati dall’Ocse recentemente lo dimostrano: se i disoccupati nell’area dell’Ocse sono quasi 15 milioni in più rispetto all’inizio della crisi finanziaria iniziata alla fine del 2007, in Italia il fenomeno non sembra voler cessare la propria ascesa, e dopo i valori dell’8,4% del 2010 e del 2011, si dovrebbe raggiungere il 9,4% in questo 2012 e il 9,9% nel 2013.

Raddoppia rispetto al 2007 anche il numero di imprese coinvolte in procedure fallimentari.

Disoccupazione e fallimenti: i numeri della crisi

anguish-4077946_1920

Stiamo parlando di un vero e proprio esercito di disoccupati dunque, che si ritrova a combattere contro la crisi schierando in prima linea i giovani, le fasce più colpite dalla pesante carenza di occupazione. E così vittime certe sono i ragazzi tra i 15 e i 24 anni, la cui percentuale è passata dal 26,8 del 2010 all’attuale 27,1. E se un giovane su due riesce nell’impresa di sopravvivere alla crisi, il più delle volte svolge comunque un’attività assolutamente precaria.

Numeri da allarme sociale, che se si sommano a quelli dei fallimenti delle imprese negli ultimi anni diventano addirittura tragici. Oberati da tasse e da una burocrazia sempre più asfissiante, molte imprese chiudono i battenti.

Dall’analisi del Censis, nel 2011 il numero di imprese coinvolte in procedure fallimentari è raddoppiato rispetto al 2007, superando gli 11 mila casi e tra dicembre 2011 e febbraio 2012 si sono ridotti anche i prestiti bancari alle imprese di oltre 16 miliardi di euro, con gli investimenti produttivi crollati del 6% nei primi mesi dell’anno rispetto al 2011.

I mestieri a rischio estinzione

sewing-5047223_1920

La sensazione che si avverte è quella di trovarsi in uno stato di empasse da cui non è possibile uscire in tempi brevi, con un tasso di disoccupazione che non scende perché non cresce la costituzione di nuove imprese.

Già con questi dati non c’è da stare tranquilli, figuriamoci se poi si guarda al futuro, come ha fatto la Cgia di Mestre, l’Associazione Artigiani e Piccole Imprese.

In base alle loro proiezioni a lungo termine sul futuro di decine di mestieri artigianali, nei prossimi 10 anni potremmo perdere 385mila posti di lavoro ad alta intensità manuale presenti nell’artigianato e nell’agricoltura.

La lista dei “mestieri a rischio” è lunga e riguarda una serie di professioni che oggi pochi giovani vogliono fare. Pellettieri, valigiai, borsettieri, falegnami, allevatori di bestiame, braccianti agricoli rischiano l’estinzione così come impagliatori, muratori, carpentieri, lattonieri, carrozzieri, meccanici auto, saldatori, armaioli, riparatori di orologi, odontotecnici, tipografi, stampatori offset, rilegatori, riparatori radio e Tv, elettricisti, elettromeccanici, addetti alla tessitura e alla maglieria, sarti, materassai, tappezzieri, dipintori, stuccatori, ponteggiatori, parchettisti e posatori di pavimenti. Professioni storiche, spesso legate ai territori e alla cultura, la cui estinzione potrebbe modificare l’assetto professionale e culturale dei territori stessi.

Il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, sottolinea:

“Molte professioni storiche presenti nell’artigianato rischiano di scomparire. Non solo perché manca il ricambio generazionale, ma anche perché non sono più redditizie o non hanno più mercato.”

La morte di una serie così importante di professioni significa anche la morte delle scuole professionali, la mancanza di futuro per i giovani e l’impoverimento dei territori, mettendo a rischio anche l’industria turistica.

Le reazioni alla riforma del lavoro

savings-2789112_1920

In questo contesto, la riforma del Ministro Fornero non sembra aver convinto in molti.

Le critiche sono piovute da destra e da sinistra, con Giorgio Squnzi, presidente di Confindustria, che l’ha definita “non soddisfacente” e con i sindacati pronti ad una stagione di mobilitazione generale per riportare l’idea di lavoro al centro di ogni cosa.

Eppure qualcosa di buono sembra esserci all’interno della riforma. Roberto Pessi, ordinario di Diritto del Lavoro presso la Luiss di Roma, osserva:

“Aver ad esempio puntato molto sull’apprendistato è certamente una cosa positiva per le giovani generazioni. Peccato però che per apprezzare in pieno gli effetti della riforma ci vorrà prima un riallineamento dell’età pensionabile. In sostanza, i circa 500 mila lavoratori a cui è stata differita la pensione con la nuova riforma previdenziale per almeno tre o quattro anni continueranno ad occupare posti che altrimenti sarebbe stato già possibile affidare a giovani lavoratori.”

Anche l’Ocse ha espresso un giudizio positivo:

“La riforma estende la copertura dell’indennità di disoccupazione a una platea più ampia di lavoratori e ne aumenta moderatamente la somma, riducendo così i costi sociali legati ad un aumento della disoccupazione.”

Da diversi anni, infatti, l’Ocse sollecita l’Italia a intervenire sul proprio sistema di ammortizzatori sociali, prevedendo che una simile misura aumenterà notevolmente il livello dei sussidi di disoccupazione relativamente al reddito precedente la perdita del posto di lavoro. A tal proposito, l’organismo con sede a Parigi aggiunge:

“Si tratta di un ottimo primo passo ma che necessita di essere accompagnato da un’efficace strategia di attivazione fondata su una più chiara distinzione di compiti tra il governo centrale e le autorità regionali, e ispirata al principio per il quale i lavoratori si impegnano a cercare attivamente un lavoro o a partecipare a corsi di formazione in cambio dei sussidi.”

Quali opzioni per i giovani disoccupati?

girlfriends-2213259_1920

Le alternative fondamentalmente sono due: affrontare la crisi in Italia con la consapevolezza che al momento non esista il diritto al lavoro ma soltanto il dovere di lavorare a prescindere dal tipo di impiego desiderato e in attesa di tempi migliori; oppure assumere una visione più ampia e mettersi in gioco guardando all’estero come possibile mercato di sbocco lavorativo.

D’altro canto lo ha detto anche il Ministro Fornero, in una recente intervista al Wall Street Journal, che il lavoro non è un diritto ma una conquista con sacrifici, una dichiarazione che ha fatto infuriare un po’ tutti ma che al giorno d’oggi sembrerebbe la più realista.